E’ presto quando mi sveglio. Ancora nella ragnatela del sonno mi siedo sulla vasca. Mi gira tutto. Il lavandino è sporco di dentifricio. Nello specchio schizzi d’acqua. I pensieri ingrommati nella testa, la bocca socchiusa, le parole allineate come soldatini spingono fra i denti. Il tempo, questo tempo sospeso, armato di crudele tenerezza, mi spinge alle spalle. Depredata scivolo dentro giornate di esilio, Arronzano nella mente scorci e squarci di memorie come un buco impertinente che resiste ad ogni rammendo.
Dalla radio in cucina arriva la colonna sonora della mia adolescenza, la voce di Baglioni con la canzone “La vita è adesso”. Le strofe, le parole mi vengono incontro. Le ripeto dapprima bofonchiate a bassa voce. Grumi di frasi zoppe, mentre mi spazzolo i capelli, mi sbircio allo specchio, mi leggo la bocca che canta, fino a che il ritornello mi travolge come un‘onda che sa’ ninnare la mia schiena.
Aprire il rubinetto e buttarmi l’acqua in viso. Cantare come quando mi svolazzava la gonna a pieghe scendendo le scale di corsa e balzavo sulla bici. Rido e canto. Canto e rido con un ritrovato rullare contro lo sterno. I pantaloni della tuta sono ancora quelli, da giorni, come una seconda pelle. Dall’asciugatrice estirpo la camicia di jeans e l’indosso. Fuori dal bagno sento i gargarismi della caffettiera e un diffuso richiamo odoroso. Sbuca la testa dalla porta della cucina: “C’è il caffè…” E scompare. Come gli si sono allungati i capelli, penso. Sono giorni di perimetri stretti e diagonali pericolose. “Andiamo di sopra con la moka e le tazzine.” Sulla scala a chiocciola, faccio tre gradini alla volta. Una piccola stanza nel sottotetto, un interregno di magistica potenza dove la luce che arriva dalla finestra sul soffitto ammanta di vita, fermento e stupore. Fino alla porta scorrevole che ti conduce al terrazzino: la stanza del cielo. E’ lì che voglio andare. La luce bianca impregna ogni cosa e punge gli occhi. L’azzurro c’è. Immacolato. Col naso all’insù guardo due nuvole mai viste. C’è un silenzio così fitto. L’aria è tersa e fluida. Giovanni si prende l’unica sedia, la gira al contrario e appoggia i gomiti sullo schienale. Poi, si guarda attorno, come uno smemorato. Gli allungo la tazzina quasi colma. La moka in terra e sorseggiamo. Mi sporgo dal muretto. Le persiane e le tapparelle dei palazzi di fronte sono chiuse. Sporgendomi di lato mi accorgo di una finestra aperta. Un uomo si affaccia, pianta i gomiti sul davanzale e tira lunghe boccate ad una sigaretta. Guarda davanti. Spegne la sigaretta, scosta la tenda e si siede. Si siede ad un pianoforte. Ora è di profilo con un ciuffo di capelli sulla fronte. Morde una matita, poi scarabocchia qualcosa su di un foglio e se la rimette fra i denti. “Cosa c’è?” si è alzato dalla sedia. “Vieni…shhh! E mi cinge la vita. E mi appoggio al suo fianco. Partono le dita lievi sui tasti bianchi e neri. Poi sicure e incalzanti. Le accoglie e le accompagna un movimento della testa fino alle spalle. Tratteniamo il respiro all’ascolto di quelle note, che dipanano una melodia sconosciuta e struggente. Ci guardiamo con un tintinnio negli occhi, attortigliati nell’abbraccio che si fa più stretto. Il sentimento del vivere si irrobustisce. Sento l’ansia di quei giorni svanire come un cerchio nell’acqua. Quando le dita ad una ad una si staccano lievi e si fermano, quelle note come voci svaniscono. Gli occhi gli restano su quella tastiera svuotata, colpevole di musica. Lento gira la testa verso la finestra e ci vede. Guarda e sorride.
Tra tutte quelle voci dove era la mia?