FABBRI Lidia

“I nomi dell’esilio”

Mi chiamo Abdul Azeem e sono afgano.

Sono stato per tre anni chiuso in una prigione infame e tenuto in isolamento totale in una cella dalla quale uscivo solo per gli estenuanti interrogatori.

La mia unica colpa era quella di oppormi al regime ed alla mancanza di rispetto dei diritti umani. Ma sono sopravvissuto ed ho trascorso il tempo pregando e cercando di ricordare i volti dei miei familiari e dei miei amici.

Poi la liberazione.

A pochi giorni dal mio arresto, la stessa sorte è toccata a mio fratello Ismal ma di lui non ho avuto più notizie.

Ho venduto tutto quello che avevo per barattarlo con un viaggio verso un’altra patria.

Il mio “accompagnatore” si è rivelato subito un trafficante di esseri umani, senza scrupoli e questo viaggio si è trasformato in un incubo.

Ho camminato a lungo, spesso di notte senza punti di riferimento, affamato, infreddolito, umiliato e ingannato, condividendo la stessa sorte con altri disperati.

Scappavamo dalla guerra, dalla paura e dalla distruzione ed eravamo tutti in cerca di una vita migliore.

Tante notti ho sognato i campi di papaveri rossi del mio paese, ma anche le rovine delle città e della mia casa, chiedendomi al risveglio se stavo facendo la scelta giusta.

La delusione è stata grande quando arrivati in Italia, non abbiamo trovato l’accoglienza che avevamo sperato.

Mi sento “sbandato”, smarrito, senza identità e provo molta sofferenza all’idea di non essere gradito e di essere giudicato da chi non conosce affatto la mia storia.

Siamo diventati merce di scambio di politici in cerca di voti e consensi elettorali, e se è stato facile ottenere un alloggio, non lo sarà ottenere una nuova patria con dignità.