“Il chiarore dell’alba”
Mi sveglio all’improvviso, sto rantolando. Cerco di inspirare e di far riaffluire l’ossigeno ai polmoni. Rimango alcuni minuti in attesa che la respirazione torni normale. Il chiarore dell’alba si sta facendo strada tra le fessure delle imposte.
Il pendio della montagna è ancora vivido: sto salendo a zig zag, mi nascondo tra i massi e i cespugli, siamo in tanti ma non conosco nessuno. Si sente uno sparo e poi un urlo, mi fermo, guardo intorno e vedo un corpo cadere giù nella scarpata. Tiro un sospiro di sollievo e proseguo; il mio scopo è arrivare in cima senza che i cecchini, che si trovano sulla parete opposta, ci colpiscano. Mi colpiscano. Quando vedo un altro cadere significa che non hanno preso me. Non so cosa ci accomuni tranne il fatto di essere tutti qui insieme, dover salire e non farsi beccare.
Mi alzo, mi lavo, mi vesto e faccio colazione, con lentezza. Come se fosse domenica, ma non lo è. Sono dentro a una bolla senza luogo e senza tempo, però le ore scorrono, come sempre. Apro le finestre, la luce del sole ora inonda tutta la casa, le piccoli nubi bianche dipingono isole deserte o animali che si rincorrono ignari. Un silenzio assoluto interrotto solo dal canto dei passeri e dal gracchio audace di una tortora. Un film dove i protagonisti sono cambiati di colpo, la scena viene occupata da ciò che era stato relegato a ruolo di comparsa.
Mi chiedo se ci sia un senso di giustizia nei confronti di chi non ha saputo apprezzare ciò di cui aveva il dominio. O forse i cecchini sparano a caso.
Le abitazioni sembrano vuote, come casette di un presepe senza pastorelli, come la creazione ferma al quinto giorno.
La magnolia freme e scuote i suoi calici bianchi. La luce va scemando, nuvole scure, come il fazzoletto nero di una vedova, arrivano da ovest. Ma non scendono lacrime, anche il cielo è attonito e impotente.
Esco, le strade sono vene disseccate, non vi pulsa più il sangue. Pochi passanti mi scansano o io scanso loro, non ci guardiamo in faccia, non un cenno o un sorriso o una smorfia. Solo distacco. Ogni contatto è bandito, ogni vicinanza vietata. Il cecchino fatica a scegliere le sue vittime se non c’è un branco, se si è distanti.
La campagna è vestita a festa: margherite e ranuncoli hanno popolato ogni prato; i peschi schiariscono il cielo di rosa. È una primavera sprecata, goduta solo dal suo creatore. Ritorno a casa, sporca e piena di sensi di colpa.
Attendo che venga la sera, con la paura di lasciare sospesi. Una cantilena assordante mi martella nella testa, mentre sono in compagnia dei miei fantasmi. Due domande ora si fanno più impellenti ma non ho le risposte. Fin quando continueremo a contaminarci l’un l’altro con dubbi e angosce? E quando torneremo a guardare la normalità con occhio distratto?
Al fronte il nemico ancora non cede, una muffa invisibile sta colonizzando spazi sempre più grandi lasciando indietro corpi non pianti, senza sepoltura.
Ma dai visceri sale una grido: chiunque combatta per la vita merita di vivere e di tornare a vedere, domani, il chiarore dell’alba.