“Radici recise”
In una notte tanto lunga da non permettere al sole di sorgere, un mercenario senza scrupoli, di cui non
conosco neppure il nome, dopo aver abusato della mia innocenza, mi lasciò salire a bordo di una piccola
imbarcazione che tracimava di disperazione. Eravamo pronti a salpare, quando, accortosi che molti non
avevano ancora pagato l’obolo per la “terra promessa”, cominciò ad inveire a gran voce, pretendendo a
suon di frustate, di cui molti di noi portano ancora i segni, quanto gli era dovuto, gettando in mare chi di noi
non poteva velocemente procurarsi il necessario per partire. Io, giovane donna libanese, avevo già pagato
un prezzo troppo alto per il mio sogno di libertà. Prendemmo il largo, allontanandoci da un cielo che ci
aveva visti soccombere a conflitti senza ragione, vivere la fame, la povertà, illusi da chi ci aveva promesso la
dolce chimera di una vita migliore. Nell’incertezza di un domani in penombra, lì dove l’orizzonte del mare si
confonde con l’infinito, scorgevamo ancora in lontananza, le coste della nostra patria. Uomini, donne e
bambini, esuli in una terra, altro dal nostro essere, dalle tradizioni e dai nostri affetti più cari. Profughi che
attraversano sterminate distese in tempesta, tormente che sovrastano i nostri corpi, facendo vacillare
speranze affidate all’approdo in un porto, sinonimo di vita, aggrappati all’aspettativa che quel sacrificio
darà ai nostri familiari, da cui un destino senza nome ci ha strappati, quella serenità da sempre sperata e
mai vissuta. Trarre forza da quel pensiero per sopravvivere a quei drammatici, interminabili giorni in mare
aperto, in balia di onde, troppo spesso cimitero di innocenti. Un viaggio estenuante, al termine del quale,
quando credevo che il peggio fosse passato, ebbe inizio il lungo e difficile pe rcorso di integrazione tra la
diffidenza di una comunità che ha reso ancor più tortuoso il mio cammino. Ho imparato sulla mia pelle che
la “diversità” innesca nelle persone meccanismi di difesa ingiustificati, gli stessi che han suscitato in me
altra sofferenza e altro dolore, facendomi sentire sempre più sola in un Paese che non è il mio. È
soprattutto nei momenti in cui lo sconforto ha il sopravvento, che la solitudine e la lontananza da radici
recise, si fa sentire con prepotenza. Tristezza e nostalgia che traspaiono inesorabilmente dai miei occhi.
Bistrattata e vilipesa nel mio essere persona, vittima inconsapevole della finta inclusivita’ di una società che
si nasconde nella propria ottusa ipocrisia. Percepirne la ruvida essenza, quando timidamente mi avvicino a
chi non ha i miei stessi tratti somatici e questi mi allontana da sé con superficiale superiorità. La pandemia
dei nostri giorni vi ha lasciati naufraghi, inaspettatamente esuli dalle vostre vite, sospesi nell’incertezza di
un futuro precario, risvegliando inconsci sopiti, abissi di solitudini, di paure, anche voi profughi in un Paese
che vi è estraneo, pedine di un nocchiere, padrone spietato delle vostre esistenze, artefice di un tempo
senza porto. Migranti nella vostra stessa terra, prede di sorella solitudine, privati persino del conforto di
condividere gli ultimi istanti di vita dei vostri familiari, di dare loro una sepoltura. Quel mare sterminato di
bare, ha inghiottito nelle sue acque, corpi senza identità, traghettati per le strade di città fantasma. Voi,
anime inquiete, orfani dei vostri affetti, figli di una nuova era, incognita senza tempo, ostaggi di un nemico
beffardo, che vi lascia nella morsa di scafisti senza volto, in mari inesplorati, profughi tra i profughi.