“Contagio”
Cosa c’è poi da ridere? Guardavo questo ragazzo dalla pelle scura che giocava a pallone sulla spiaggia deserta. Un migrante, l’avevo riconosciuto. Era arrivato la sera prima su una piccola barca da pescatore assieme ad altri compagni, tutti maschi più o meno giovani, tranne l’unica donna già un po’ in là con gli anni.
Ero su uno scoglio per i fatti miei. Cercavo di stupirmi guardando l’ennesimo tramonto invernale sul mare, ma senza risultato. Il ragazzo scese dalla barca per ultimo e mi lanciò un sorriso. Lo guardai e rimasi sconcertato. Non doveva essere stato un viaggio facile. Non ha niente e sorride, pensai.
Il giorno dopo tornai sulla spiaggia, nello stesso posto della sera prima. Guardai verso l’insenatura dove avevo visto sbarcare quei migranti. La barca era sparita e non c’era nessun segno che rivelasse tracce di un recente approdo. Nessun resto di salvagenti o altri oggetti di cui si sarebbero dovuti liberare, nessuna impronta evidente sulla sabbia. Temetti di averlo immaginato, d’altra parte ero in una fase di confusione e qualsiasi cosa mi accadesse era possibile. Invece lo vidi. Vidi il ragazzo che era sceso per ultimo che giocava sulla spiaggia solitaria con un pallone che prendeva strani rimbalzi. Un tiro sbagliato lo fece rotolare dalla mia parte. Il ragazzo lo inseguì e mi rivide. Ancora s’illuminò di un sorriso al quale risposi con un ghigno. Che voleva? Possibile che non riuscissi a starmene in pace nemmeno in un posto isolato come quello? In realtà ciò che più m’infastidiva era quel sorriso tutto denti, denti bianchissimi e grandi occhi lucidi che brillavano in contrasto col giorno opaco e freddo, giorno che ben si confaceva col mio stato d’animo. Lo guardavo, mi guardavo e sentii montare una gran rabbia. Me la presi con me stesso. Che diritto avevo d’essere incattivito col mondo quando al mattino mi alzavo trovando la colazione pronta e ogni confort, lì, tutto disponibile, senza neppure lo sforzo di dover chiedere? Quel ragazzo non sapeva se avrebbe trovato di che sopravvivere, eppure rideva. Perciò mi alzai, raccolsi il mio zaino e tornai in albergo ancora più afflitto. Il proprietario dell’albergo mi salutò chiedendomi a che ora intendevo cenare. Al mio arrivo mi ero premunito di avvisarlo che ero lì per certi studi particolari che m’imponevano di non conversare con nessuno se non per cose esclusivamente pratiche e l’orario della cena vi rientrava. Fu molto comprensivo, anche se ogni volta mi scrutava cercando di capire di che diavolo mi stessi occupando.
Anche quella notte fu una notte di tormenti. Pensavo a questo ragazzo, perché fosse rimasto solo, dove fossero gli altri suoi compagni. Pensavo a quanto avesse potuto patire e quali pene avrebbe dovuto affrontare semplicemente per procurarsi un pasto. Sovrapponevo a questi pensieri altri che mi riguardavano personalmente, dicendomi che la fatica di doversi procurare un pasto era comunque un fatto diretto in un’azione concreta, in un certo senso il bisogno primario allontanava ogni altro genere di tormento interiore e non meno pesante da sopportare. Così pensai che da un certo punto di vista tutti gli uomini, chi per un verso, chi per un altro, si trovassero nella medesima condizione di sofferenza. Pensai che anche risolti i bisogni primari la felicità ci fosse preclusa per il semplice fatto che rispetto agli altri animali avevamo la consapevolezza della nostra breve esistenza. Con questa consapevolezza ci muovevamo disordinati, ognuno a cercare un proprio modo di vivere o sopravvivere. Mi addormentai su questi pensieri sconclusionati. Fu un sonno irrequieto, senza sogni, un sonno vuoto.
Al mattino presto ero di nuovo al mare. Il sole invernale catturava in bianco e nero gli scogli su cui si abbattevano onde violente di schiuma. Mi raccolsi nella giacca a vento chiedendomi ancora una volta cosa mi aveva spinto a scegliere un posto così freddo e desolato. Certamente aveva a che fare con l’inconscio, non c’era altra spiegazione. Nel quadro immobile aspettavo di scorgere almeno un gabbiano che interrompesse la monotonia del paesaggio. Invece vidi la figura in controluce del solito ragazzo sulla spiaggia, che dopo qualche palleggio calciava questo pallone dalla forma irregolare, in un tiro studiato verso una porta immaginaria. Come se avvertisse la presenza di qualcuno si voltò a guardarmi e ancora mi sorrise. Mi sforzai di ricambiare e tirai le labbra in una smorfia poco allegra. Ma lui non parve cogliere la mancanza d’allegria in quel sorriso e alzò una mano per salutarmi.
Il giorno dopo ero ancora avvolto nella mia solitudine, direi al riparo nella mia solitudine e pensai di ritornare a casa. Anche lì, al mare d’inverno, nella ricerca di tramonti diversi che non fossero i soliti tramonti “
Un giorno si chiuse anche questo periodo. La stagione era cambiata. Al mattino dalla finestra entrava una luce più calda e mi svegliavo col cinguettio delle allodole. Il proprietario dell’albergo col quale avevo finito di cedere a occasionali conversazioni, mi disse che avevano aperto i confini tra le regioni. Potevo tornare a casa. Non accolsi la notizia con entusiasmo. Ancora una volta ero vittima delle mie contraddizioni. Alla sera ritornai alla spiaggia, nel solito posto sullo scoglio. Mi meravigliai di come fosse diverso il paesaggio. Quel periodo d’assenza mi aveva lasciato l’immagine grigia dei giorni trascorsi avvolto nella giacca a vento. Adesso potevo respirare l’aria tiepida a pieni polmoni e guardare il cielo con un brivido di novità. Il mare era tranquillo e azzurro come ancora non aveva potuto vederlo. Tutto sembrava prepararsi per un nuovo inizio, ma ancora mi vidi sovrastato dalla mia solitudine. Ripensai di tornare alla mia città, che tanto… Mi trattenni ancora qualche istante per guardare un gruppetto di ragazzi che lasciava la spiaggia ridendo tra di loro, felici d’essere usciti dalle restrizioni o più semplicemente felici di vivere. Cercai di considerarli con empatia, ma non mi riuscì. E poi ancora lui, come l’immagine di un sogno che si ripete. L’emigrante, il ragazzo del pallone sformato. Anche lui mi vide e mi venne incontro col solito braccio alzato per salutarmi, sorridendo come sempre, un sorriso gioioso senza riserve. Allora anch’io ho sorriso, non più a denti stretti. Mi fece vedere il pallone, era davvero brutto, un pallone di cuoio dalla pelle rovinata che aveva preso una buffa forma irregolare. Mi scappò da ridere. Anche il ragazzo si mise a ridere. Ridemmo sempre più presi da quel pallone che un po’ ci assomigliava, quel pallone che calciandolo andava dove voleva e noi che continuavamo a calciarlo sempre più forte inseguendo quella strana traiettoria imprevedibile. Continuammo a calciare e a correre dietro quel buffo pallone deformato cercando di sottrarcelo l’un l’altro, come se ad ogni calcio avessimo trovato, ognuno per conto suo, un buon motivo per continuare a vivere.