MINGHETTI Marta

“Deserti”

Marcela approdò in Italia nel 1965, 23 anni appena compiuti. Era minuta e muscolosa, con la carnagione india, scura di sole.

Il viaggio non le era sembrato tanto lungo, alla fine. La corriera che cavalcava intrepida il deserto di Catamarca, nell’estremo nord argentino, le aveva ricordato la mula scontrosa della sua infanzia, quando tentava per gioco di salirle in groppa. Di alcuni calci portava ancora il segno.

All’inizio cercò di imprimere nella mente la forma di ogni singolo cactus, l’ombra quieta delle montagne, la traettoria dell’aquila sulle cime; respirò il profumo intenso che saliva dalle valli. Quando l’odore di terra cominciò a mescolarsi in bocca con quello del gasolio, volse avanti lo sguardo, senza lacrime.

A Buenos Aires si era fermata poche ore, il cuore sospeso in un tempo surreale vuoto di pensieri e colmo di attesa. Dell’aereo che l’aveva portata a Milano ricordava solo il passeggero vicino a lei, perché le aveva guardato le scarpe.

Conobbi Marcela a Milano, nel ’72. Parlava un italiano corretto, asciutto e pungente. Il suo sorriso aperto, da bambina, contrastava con la tristezza dei suoi occhi neri. Mi dava spesso la sensazione di essere fuori luogo e fuori tempo. Per esempio una volta la vidi con indosso un completo di lana a quadretti blu, un bell’abito, elegante, che la faceva sembrare un folletto sgraziato.

Seppi un giorno che aveva deciso di tornare nella sua terra. Gliene chiesi il motivo e, con una sincerità inaspettata, mi spiegò che non tollerava più lo spreco che vedeva ogni giorno nelle case dove lavorava. Ogni volta che un avanzo di cibo veniva buttato, dentro di lei si scatenava l’inferno: il pensiero della sua gente che soffriva la fame la faceva sentire impotente e inutile in quell’ambiente di buoni cristiani, incapaci di essere giusti.

Eppure, nonostante il dolore che la devastava, si fece forza e restò. Di nuovo gliene chiesi ragione e mi rispose seria: «Anch’io ho le mie colpe».

Col passare del tempo, vidi i suoi occhi perdersi in luoghi sempre più lontani.

Venticinque anni dopo, un giorno dalla Pacha Mama si levò il vento leggero dell’altopiano, attraversò l’Oceano e l’avvolse nelle sue braccia. Appresi che Marcela era morta, e la notizia non mi stupì: da molto tempo non era più con noi.

Il suo spirito si acquietò in mezzo a un arbusto spinoso, sulle pendici del monte Humaca, da cui poteva scorgere il suo villaggio natale. Si mise in ascolto e dal vento le giunsero suoni familiari: telai che battevano fili di lana, colpi di martello che lavoravano il ferro, belati di greggi, canti di bambini. C’era ancora vita, lassù, c’era nuova vita. Comprese che il suo sacrificio era stato gradito quando, in una goccia di rugiada, si vide riflessa, vestita dei suoi colori: il rosso della terra, il giallo delle rocce, l’arancio delle montagne. Di valle in valle girò voce del suo ritorno e gli spiriti degli avi accorsero a farle festa, mentre la Madre Terra la cullava con tenerezza come figlia appena nata, finalmente a casa.