“Senza sonno”
Tum, tum. Battito di cuore, respiro.
Udivo suoni insoliti e vagamente conosciuti rinchiusa in quella che chiamavano prigione.
Il giorno in cui mi spinsero là dentro mi spaventai e cercai di ribellarmi a quel castigo ingiustificato.
Era quasi primavera e io mi ritrovai in un letargo forzato, senza sonno.
Ero sola, anche se accanto a me scorgevo ombre dalla forma umana, grigie e mute.
Pensavo al mondo là fuori, pieno di boccioli pronti a diventare fiori e poi frutti. Potevo solo immaginare i loro petali profumati, annusandoli nei ricordi. Pensavo alle strade deserte, vuote di passi e corse affannate.
Là rinchiusa, mi lasciavo attraversare da giorni lunghi, intenti a precipitare ognuno verso il proprio tramonto e poi nella stessa notte che mi sovrastava e che era il rifugio dei miei sogni.
“Deve esserci altro tra queste pareti di cemento. E tra queste membrane di carne, vene e sangue che scorre” pensai.
Iniziai ad avvertire un fremito. Nel silenzio di quello spazio ristretto, avevo quello che bramavo da tanto e di cui sentivo dolorosamente la mancanza. Avevo tempo. Tempo per stare ferma. Tempo per pensare. E mi sentivo libera.
Quell’immobilità e quel silenzio erano privilegi e quello spazio ristretto iniziò ad assomigliare a qualcosa di molto diverso da una prigione.
Notai un tetto spiovente sulla mia testa. Ero in una soffitta. Intorno a me c’erano scatoloni accatastati e impolverati. Decisi di vedere cosa contenevano. Trovai diari, agende, fogli di carta scritti a mano, su cui erano riportati i pensieri di una giovane donna vissuta trent’anni prima.
Più leggevo quelle pagine, più mi rendevo conto di conoscere la padrona di quel tesoro. Una forte malinconia, dolce e amara allo stesso tempo, mi rapì. Avevo dimenticato quella fanciulla e tutti i suoi sogni. L’avevo lasciata indietro, più lenta e debole di me, nella folle corsa alla quale mi avevano costretto. E io, stupida, avevo acconsentito ad abbandonarla, rischiando di ucciderla.
Mentre ero assorta in quei pensieri, una voce sussurrò attraverso la fessura della porta che presto mi avrebbero liberato. Liberato da chi? Da cosa?
Pregai in silenzio perché mi facessero rimanere lì dentro il più a lungo possibile. O per sempre.
E se, una volta tornata in mezzo al rumore del mondo e alla sua velocità, avessi dimenticato di nuovo ciò che avevo riscoperto?
Mi rassicurava il pensiero di quella giovane donna ritrovata, sopravvissuta già una volta al mio tentativo inconsapevole e ingenuo di ucciderla. Era ormai cresciuta, non vi era rimasto nulla della debole fanciulla di un tempo e sapevo che avrebbe fatto di tutto per trattenermi e obbligarmi a dedicarmi a lei e ai suoi sogni.
Ma avevo paura lo stesso. E se non fosse riuscita nel suo intento?
«Vi prego, lasciatemi qui. Non sopravvivrò all’esilio in cui mi volete riportare, lontano da questa isola sperduta in cui finalmente ho ritrovato me stessa. Non voglio più tornare alla vita di prima. Non voglio più vivere sulla terraferma».